Il padre della Pop art sul banco degli imputati: l’opera di Andy Warhol viola il diritto d’autore

Il padre della Pop art sul banco degli imputati: l’opera di Andy Warhol viola il diritto d’autore
È difficile immaginare l’esponente della Pop art Andy Warhol, l’artista che negli anni ‘60 si è distinto per originalità e provocazione – tanto da contribuire significativamente alla nascita di una nuova corrente artistica – essere ritenuto colpevole di violazione del diritto d’autore. Tuttavia, questo è quanto accaduto lo scorso mese con una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che sta facendo molto discutere in vista della limitazione della portata del fair use operata dai giudici (Andy Warhol Foundation for the visual arts, Inc. v. Goldsmith et al United States Court of Appeals for the Second Circuit No. 21–869, May 18, 2023).
La Vicenda

Orange Prince è una delle 16 opere inedite, facenti parte della c.d. “The Prince Series” che Andy Warhol ha realizzato negli anni ‘80 per celebrare il cantautore statunitense Prince Rogers Nelson. La fotografia originale che ha consentito all’artista la realizzazione della serie è stata scattata dalla ritrattista Lynn Goldsmith, conosciuta soprattutto come fotografa “Rock and Roll” per i soggetti che predilige: star provenienti dall’ambiente funk-rock.

Ebbene, in occasione della morte di Prince avvenuta il 21 aprile 2016, la Global media company Condè Nast, in memoria del musicista, aveva pubblicato – per un numero speciale di Vanity Fair – uno dei sedici ritratti realizzati da Warhol nel 1984.  

A seguito della pubblicazione di quell’edizione speciale, che costò al periodico oltre dieci mila dollari versati alla sola Warhol Foundation, la Goldsmith – che negli anni ‘80 aveva concesso alla stessa Vanity Fair licenza per la pubblicazione del medesimo scatto oggetto di causa – veniva a conoscenza, per la prima volta, dell’esistenza della serie di ritratti realizzati dall’artista della Pop art. Nel 2017 la fotografa avviava così delle trattative con l'intento di ottenere dalla Fondazione un risarcimento dei danni per la violazione dei suoi diritti patrimoniali e morali.

Dunque, la Warhol Foundation – in qualità di ente che persegue, tra gli altri, lo scopo di gestire le licenze delle opere dell’artista – citava in giudizio la Goldsmith, chiedendo che venisse riconosciuta la liceità dell’uso della fotografia de quo da parte dell’artista, in considerazione delle alterazioni trasformative che erano state apportate alla fotografia di Prince e che avrebbero conferito alla stessa quel carattere eccentrico e provocatorio tipico della popolar art.

La decisione dei giudici statunitensi non fu però immediata. Infatti, se in primo grado il tribunale distrettuale di Manhattan, aveva dato ragione alla Warhol Foundation, qualificando l’immagine del pittore come trasformativa e dunque rientrante nell’alveo delle eccezioni al diritto d’autore in virtù del c.d. Fair use (uso legittimo) §107 del Copyright Act del 1976, la Corte d'Appello del Secondo Circuito ha, al contrario, ritenuto insussistenti i requisiti per l’applicazione della scriminante in questione. In particolare, secondo la Corte d’Appello il giudice distrettuale ha errato nel cercare un significato da attribuire alle opere di Warhol. Diversamente avrebbe dovuto indagare sulla sussistenza o meno di una ragionevole percezione di un nuovo significato o messaggio in relazione allo scopo commerciale perseguito dalla fondazione.

La recentissima pronuncia della Corte Suprema del 18 maggio 2023, conferma la linea di pensiero adottata nella sentenza della Corte d’Appello, rigettando le argomentazioni dalla Warhol Foundation che fondamentalmente intendevano fare leva sul concetto di fair use.

Il fair use e l’apprpopriation art

L’appropriation art può essere definita come una forma espressiva artistica che consiste nell’utilizzare preesistenti immagini, oggetti, opere d’arte altrui, reinterpretandoli in chiave personale e cambiandone totalmente il significato. Il fenomeno è oggi comune a molti artisti contemporanei ed è particolarmente diffuso negli Stati Uniti dove l’appropriation art si ispira alle immagini della cultura pop, della pubblicità, dei mass media, nonché ad opere di famosi artisti incorporandole in nuove opere d’arte.

Da un punto di vista giuridico occorre premettere che negli Stati Uniti l’opera d’arte trova una definizione e una tutela all’interno del U.S. Copyright Act del 1976 che ricalca – sebbene con alcune differenze sostanziali – la disciplina del diritto d’autore italiana (L. 22 aprile 1941 n. 633). Il fair use si colloca in questo scenario come un'eccezione al diritto d’autore, consentendo ai terzi di utilizzare l'opera altrui anche in assenza del consenso del titolare qualora sussista una causa di giustificazione che escluda lo scopo di lucro. In particolare, la section 17 dell’U.S Copyright Act § 107 statuisce che per potersi applicare la scriminante del fair use i giudici devono necessariamente prendere in considerazione quattro fattori: (i) lo scopo e il carattere dell’uso dell’opera (verificandone la finalità commerciale o meno); (ii) la natura dell’opera; (iii) la quantità di opera originale utilizzata e (iv) gli effetti potenziali sul mercato della sua commercializzazione. Radicalmente opposto è, invece, l’approccio europeo in materia di uso legittimo. Per un ulteriore approfondimento sul tema si rimanda all’art. 17 c. 7 della Direttiva Copyright (Dir. 2019/790) e all’art. 70 della Legge sul Diritto d’Autore (L. 633/1941).

La sentenza della Corte Suprema

L'attesa sentenza, firmata dal giudice Sonia Sotomayor, fa il punto sul corretto uso della disciplina del “fair use”, limitandone la portata a tutela dell’interesse degli autori. Il ragionamento giuridico della Suprema Corte risiede nell'uso trasformativo. In particolare, secondo la Corte Suprema, un utilizzo di opere protette altrui è trasformativo se aggiunge qualcosa di nuovo, stravolgendo lo scopo iniziale dell’opera attraverso una nuova espressione, un nuovo significato o un nuovo messaggio.

Si badi bene che nella fattispecie in esame l’oggetto della lite non era l'uso fatto da Warhol al momento della creazione dei suoi lavori nel 1984, bensì quello fatto dalla Fondazione che ha concesso in licenza uno di quei lavori a “Vanity Fair”, la quale - come anticipato - già in passato aveva utilizzato l’immagine di Prince dietro licenza, però, della Goldsmith.

Solo in ragione di siffatta contestualizzazione si può comprendere la decisione dei giudici statunitensi. Si tratta infatti di un “uso” che ha necessariamente posto l'opera di Warhol e quella della Goldsmith in competizione, proprio perché entrambe accomunate da uno scopo commerciale.

A sostegno della propria tesi, la Corte Suprema motiva le proprie conclusioni spiegando cosa debba intendersi per “estensione della novità”. Nel farlo si avvale dell'esempio della nota scatoletta di zuppa Campbell's, una delle opere più famose di Warhol, che ha sempre trovato il consumismo tremendamente kitsch e affascinante e che dunque trova la sua originalità nello scopo di critica e parodia: elementi, questi, che non sono state ritrovati nella serie di opere dedicata a Prince. Ad avviso della Corte, infatti, la serie di ritratti sarebbe stata utilizzata per scopi non molto diversi da quelli della fotografia realizzata dalla Goldsmith. Più in particolare, nel contesto della pubblicazione di Vanity Fair, ha stabilito la Corte Suprema, l'uso dell'immagine è essenzialmente identico a quello della fotografia di Goldsmith: entrambe sono opere utilizzate su riviste per illustrare vicende riguardanti Prince.

Dove finisce l’arte e dove comincia l’abuso?

Come detto l’appropriation art si è cominciata a sviluppare e a diffondere negli Stati Uniti. Qui si sono anche tenute le più interessanti diatribe giurisprudenziali in merito al riconoscimento o al diniego del Copyright in capo all’autore dell’opera d’arte.

Una fattispecie simile al caso appena esaminato è la pronuncia dei giudici americani risalente al 2002 che ha visto come controparti Barbara Kruger – artista rinomata soprattutto per le sue opere composite che combinano fotografie e testi – contro il fotografo tedesco Thomas Hoepker. In questo caso, però, i giudici accolsero la tesi dei legali dell’artista fondata sulla preminenza della libertà artistica rispetto ai diritti del fotografo, non ravvisando alcuno scopo commerciale nell'uso che la Kruger aveva fatto della fotografia di Hoepker (segnatamente aveva ripreso una modella che teneva una lente di ingrandimento che ingrandiva il proprio occhio, tagliando e ingrandendo l’immagine e sovrapponendovi le parole “it’s a small word, but not if you have to clean it”).

Un altro caso molto interessante e conosciuto sicuramente dagli appassionati dell’arte concettuale ha visto contrapposti la fotografa di moda Andrea Blanch e l’artista Jeff Koons, icona dello stile neo-pop; quest’ultimo realizzava nel 2000 l’opera Niagara. Trattasi di un collage di fotografie di piedi femminili con un paesaggio sullo sfondo. Una di queste immagini è uno scatto dalla fotografa di moda Andrea Blanch, la quale conveniva in giudizio l’artista statunitense per ottenere il riconoscimento della violazione del proprio copyright sulla fotografia utilizzata. Nel 2004 la Corte statunitense riconosceva l’autonoma tutelabilità dell’opera di Koons, a ragione del fatto che la fotografia era stata completamente trasformata e decontestualizzata poiché impiegata nell’ambito di un contesto lontano da quello della moda.

Diametralmente opposta, rispetto alla statuizione di cui sopra, è la decisione della Corte distrettuale statunitense che vede, ancora una volta come parte convenuta, l’artista kitsch Jeff Koons, condannato questa volta, per aver tratto ispirazione da una fotografia di Art Rogers per realizzare la famosissima scultura “Stig of Puppies” (la foto della coppia in bianco e nero con in braccio 8 cuccioli di cane).

Anche se suffragato da una base giuridica diversa, il ragionamento dei giudici italiani in materia di appropriation art non si discosta troppo dai colleghi statunitensi. Tra i casi giurisprudenziali più interessanti non può non citarsi la famosa sentenza del Tribunale di Milano nella controversia che ha visto contrapposte gli eredi del maestro Giacometti e la Fondazione Prada (Trib. Milano, ord.13 luglio 2011).

La diatriba è sorta a seguito di un’esposizione di opere dello scultore americano John Baldessari, intitolata “The Giacometti Variations”, ospitata dalla fondazione Prada di Milano. Le sculture riprendevano le figure longilinee del celebre maestro Giacometti, reinterpretate però in chiave moderna, alla luce del differente messaggio che si intendeva comunicare nel contesto in cui venivano esposte. La magrezza, così come le espressioni corrucciate delle sculture femminili, erano infatti determinate non dalle privazioni del conflitto bellico (come avveniva nelle sculture di Giacometti), bensì delle esigenze severe della moda. Questa è stata la ragione determinante che ha indotto il tribunale di Milano a riconoscere l’autonoma proteggibilità delle sculture di Baldessari che ha drammaticamente trasformato l’immagine della donna di Giacometti.

In conclusione, se è vero che l’appropriation art, così come la parodia trovano una giustificazione in America nella disciplina del fair use, in Europa nella Dir. 2019/790, è altrettanto vero, che, trattandosi di valutazioni di carattere pressoché soggettivo in molti casi non risulta così agevole affermare con certezza se un’opera possieda o meno i caratteri minimi di creatività e autonomia che consentono di distinguerla dall’opera che l’ha ispirata. Infatti, nel parere espresso dai giudici del caso Andy Warhol Foundation for Visual Arts, Inc. v. Goldsmith si manifesta una sincera preoccupazione per le conseguenze sulla creatività, poiché una simile sentenza potrebbe limitarla irrimediabilmente.

Avv. Eleonora Carletti e Dott. Filippo Tenani

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