Il 9 settembre ha segnato l’inizio di un nuovo capitolo del tormentato rapporto tra Google e l’antitrust statunitense. In tale data ha infatti avuto inizio una nuova causa che contrappone il colosso tech e il Department of Justice degli USA, che accusa Google di monopolizzare illecitamente il mercato della pubblicità online, in violazione dello Sherman Act.
Il 9 settembre ha segnato l’inizio di un nuovo capitolo del tormentato rapporto tra Google e l’antitrust statunitense. In tale data ha infatti avuto inizio una nuova causa che contrappone il colosso tech e il Department of Justice degli USA (DoJ), riguardante la pubblicità digitale. La questione è di enorme importanza, costituendo questa la principale fonte di entrata di Google e rappresentando una chiave decisiva per il futuro del Web.
Le acquisizioni di Google
Al centro della controversia, che arriva appena dopo una importante sconfitta antitrust incassata da Google sulla monopolizzazione della ricerca online, è l‘abuso di posizione dominante di Google nel mercato della pubblicità online, in seguito a una serie di acquisizioni. In primo luogo, DoubleClick, nel 2007, che secondo il Department of Justice americano controllerebbe ora più della metà del mercato pubblicitario delle transazioni legate alle visualizzazioni web. In seguito, altre due società, Invite Media e AdMeld, che hanno garantito a Google accesso agli inserzionisti che cercano di acquistare spazi pubblicitari e la possibilità di metterli in contatto con gli editori. Tali operazioni hanno dunque conferito a Google un ruolo di controllo a monte, a valle e perfino nella dimensione intermedia: sull’offerta, la domanda e il punto di incontro tra le due.
Infatti, i web editor che cercano di guadagnare dalla pubblicità si affidano a tali servizi nel ruolo di intermediari. Questi consentono ai siti di vendere annunci sulle loro pagine e agli inserzionisti di acquistare spazi pubblicitari che raggiungono i potenziali clienti, mentre Google incassa una ingente quota di entrate da entrambe le parti.
La figura dell’abuso di posizione dominante
A questo punto, è utile ricordare più precisamente i contorni dell’abuso di posizione dominante: uno degli istituti fondamentali del diritto antitrust, sin dalle sue origini (da rinvenirsi proprio negli USA di fine 800). Ai sensi della Section 2 dello Sherman Act, negli Stati Uniti è illegale per chiunque “monopolizzare, o tentare di monopolizzare, o combinare o accordarsi con qualsiasi altra persona o persone, per monopolizzare qualsiasi parte del commercio o degli scambi tra i vari Stati, o con le nazioni straniere”. Gli illeciti previsti sono dunque tre e vengono definiti “monopolio”, “tentativo di monopolio” e “accordo volto a dar vita a monopolio”. Peraltro, l'articolo 2 dello Sherman Act riguarda la condotta di una singola impresa o la condotta unilaterale di imprese con potere monopolistico o con una pericolosa probabilità di raggiungere tale potere. Diverso è il caso della violazione che riguarda la condotta di due o più imprese che si uniscono per limitare il commercio (Section 1 dello Sherman Act o dell'articolo 7 del Clayton Act). Naturalmente l’attenzione per i monopoli nasce in primo luogo dal potere che i monopolisti detengono nell’applicare prezzi più alti a fronte di servizi di minore qualità o più scarsi.
Una disciplina in evoluzione
È importante notare che lo sviluppo dottrinario e giurisprudenziale della disciplina antitrust ha conosciuto nel tempo significative oscillazioni di orientamento, talvolta riassunte semplicisticamente con “strutturalismo” e “consumer-welfarism”. Prospettive che si legano rispettivamente a storiche figure quali
Louis Brandeis e Robert Bork. In buona sostanza, il dibattito antitrust si è diviso tra un approccio più “interventista” e più liberista. Una impostazione che vedeva in origine con sospetto la posizione dominante “in sé” (strutturalismo), soprattutto rispetto ai piccoli competitor, fu abbandonata alla fine degli anni 70 (alla vigilia dell’era reaganiana) per adottare l’impostazione del “consumer-welfarism” che guarda esclusivamente al “benessere dei consumatori”. A tale svolta contribuì un libro di Bork, “Il paradosso dell’antitrust”, in cui sosteneva che la disciplina antitrust danneggiasse il benessere dei consumatori penalizzando società che avevano conquistato grandi quote di mercato perché più efficienti. Decenni dopo, “replicò” una studiosa come Lina Khan, intitolando non a caso un proprio celebre articolo “Amazon's Antitrust Paradox”, sostenendo che la concezione dell’antitrust dominante fosse inadeguata a limitare le istanze più pericolose dei colossi del tech. Khan, poi scelta dalla amministrazione Biden come Presidente della Federal Trade Commission degli Stati Uniti, contribuì così a una rinascita dell’approccio più interventista, in relazione alle nuove, epocali, questioni del nostro tempo.
La nuova causa contro Google
Non sorprende, dunque, che anche il nuovo caso in esame non sia impermeabile a un simile dibattito, con l’avvocato di Google, Karen Dunn, che sostiene che il DoJ abbia una concezione superata del funzionamento di Internet e che Google sarebbe solo una società tra una serie di validi concorrenti. Eppure, l’accusa sostiene che la condotta di Google avrebbe chiare ripercussioni anche sui consumatori. In particolare, il colosso tech abuserebbe della sua posizione dominante per sovrapprezzare deliberatamente gli inserzionisti, trattenendo almeno 30 centesimi di ogni dollaro che fluisce verso gli editori di siti web attraverso i propri servizi pubblicitari. Di conseguenza, i website creator guadagnerebbero meno e gli inserzionisti pagherebbero di più di quanto accadrebbe in un mercato realmente competitivo. Con il risultato finale di un trasferimento di costi al consumatore tramite paywall e abbonamenti.
Testimoni di lusso
Al di là delle rigide misurazioni econometriche su cui necessariamente si fondano le cause antitrust, tra i testimoni che verranno chiamati contro Google vi sono ex dipendenti così come i vertici della editoria mondiale. Dirigenti di protagonisti quali Disney, il New York Times, BuzzFeed, Vox e NewsCorp, oltre a CEO delle società di pubblicità. Dal canto suo, Google ha sostenuto che rifiutarsi di trattare con aziende rivali non costituisce una violazione antitrust e che il DoJ non starebbe delineando correttamente i limiti del mercato della pubblicità digitale. Non resta dunque che attendere i risvolti di una causa che potrebbe lasciare un’impronta indelebile, anche se non sempre pienamente percepita, nella fruizione quotidiana dei servizi internet.