La corte UE dice no al “gin non alcolico"

La corte UE dice no al “gin non alcolico"
La Corte di Giustizia UE, con la sentenza C-563/24, ha stabilito che la denominazione “gin non alcolico” non può essere utilizzata per una bevanda analcolica che non rispetta i requisiti di legge previsti per il “gin” e ha confermato la piena legittimità del divieto imposto dall’art. 10(7) del Regolamento 2019/787, ritenendolo non violativo della libertà d’impresa sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Il caso

Il caso che porta la questione avanti alla CGUE sorge in Germania, quando l’associazione Verband Sozialer Wettbewerb eV (“VSW”) – associazione tedesca nota per vigilare sul rispetto delle norme contro la concorrenza sleale – contesta la liceità della commercializzazione del prodotto analcolico denominato “Virgin Gin Alkoholfrei” (ossia, “Virgin gin non alcolico”) da parte della PB Vi Goods GmbH.

La VSW sosteneva che l’uso della denominazione “gin” in relazione alla detta bevanda analcolica violasse il Regolamento 2019/787 (“Regolamento”), in materia di definizione, designazione, presentazione ed etichettatura delle bevande spiritose. Infatti, per essere definito tale, il Regolamento prevede che il gin debba soddisfare precise caratteristiche di produzione, tra cui l’essere ottenuto dall’aromatizzazione con bacche di ginepro di alcole etilico di origine agricola e un titolo alcolometrico minimo di 37,5%. Poiché, dunque, il prodotto non soddisfaceva né il requisito della presenza di alcol né quello della tecnica di produzione indicata ex lege, la VSW riteneva illegittimo – per violazione del divieto imposto dal Regolamento – e ingannevole per il consumatore l’utilizzo del termine “gin”, ancorché “non alcolico”.

La domanda di pronuncia pregiudiziale

Il Giudice tedesco del rinvio sospendeva il procedimento sottoponendo alla CGUE due questioni pregiudiziali.

Da un lato, chiedeva se l’art. 10(7) del Regolamento fosse da ritenersi invalido per violazione della libertà d’impresa prevista dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Dall’altro, in subordine, chiedeva se l’art. 10(7) del Regolamento potesse essere interpretato nel senso di non vietare «…la presentazione o l’etichettatura di una bevanda non alcolica come “gin non alcolico” per il solo motivo che la bevanda non raggiunge il titolo alcolometrico volumico minimo richiesto per essere qualificata come “gin” e non è stata ottenuta mediante aromatizzazione, con bacche di ginepro, di alcole etilico di origine agricola (bensì di acqua)».

La motivazione della CGUE

La Corte affronta innanzitutto il secondo quesito, ossia il nodo dell’interpretazione dell’art. 10(7), chiarendo come la norma europea vieti l’utilizzo della denominazione legale “gin” per prodotti che non soddisfano i requisiti organolettici e di produzione individuati dal Regolamento per la categoria “gin” e che tale divieto operi anche quando la denominazione è accompagnata da termini che ne precisano o attenuano il significato, come “non alcolico”, “tipo”, “gusto” o simili. Il Legislatore dell’Unione Europea ha, infatti, inteso riservare l’uso della denominazione “gin” a prodotti che rispettano la definizione tecnica contenuta nell’Allegato I del Regolamento, pertanto, una bevanda totalmente priva di alcol e con caratteristiche diverse da quelle previste da Regolamento per il “gin” non potrà, per definizione, essere qualificata e commercializzata come “gin”, indipendentemente dalle precisazioni aggiunte in etichetta.

Quanto invece al profilo della validità della norma citata in relazione all’art. 16 dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, la CGUE ricorda che la libertà d’impresa, ossia il diritto delle imprese di organizzare liberamente la propria attività economica, non è un diritto assoluto, ma deve essere esercitato in conformità al diritto UE e alle legislazioni e prassi nazionali. Tale libertà può essere limitata per finalità di interesse generale, come la tutela dei consumatori, la trasparenza del mercato e la prevenzione della concorrenza sleale; e il divieto imposto dall’art. 10(7) è considerato idoneo e necessario a raggiungere tali finalità. Infatti, evita che il consumatore venga tratto in inganno non solo sull’alcolicità del prodotto, ma anche sulle sue caratteristiche essenziali, e impedisce che produttori diversi rispetto a quelli delle bevande spiritose si avvantaggino indebitamente della reputazione acquisita da prodotti disciplinati. Tale divieto non impedisce la commercializzazione del prodotto analcolico, ma solo l’uso improprio della denominazione legale “gin”, senza pregiudizio della libertà d’impresa e rispettando il principio di proporzionalità; in altre parole, il produttore del “gin analcolico” potrà comunque produrre e commercializzare la bevanda, ma non potrà utilizzare la denominazione “gin”. 

Conclusioni

In conclusione, la sentenza ribadisce il valore delle denominazioni legali nel sistema europeo: non si tratta, infatti, di “semplici” etichette, ma di strumenti che assicurano al consumatore informazioni corrette e tutelano un mercato fondato su regole comuni.

Usare la parola legalmente individuata, come “gin”, per una bevanda senza alcol e che non si conforma agli standard di realizzazione previsti dal Regolamento significherebbe modificare il significato tecnico della categoria e creare confusione sulla natura del prodotto stesso a scapito della chiarezza. Per questo la Corte richiama la necessità di preservare coerenza e trasparenza nel settore: nel diritto alimentare europeo il nome non è un dettaglio; è una garanzia per tutti i produttori e una tutela per i consumatori.

Avv. Francesca Folla e Dott.ssa Giulia Gitto

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