Responsabilità degli amministratori, i limiti al beneficio della c.d. Business Judgment Rule

Responsabilità degli amministratori, i limiti al beneficio della c.d. Business Judgment Rule
In tema di responsabilità degli amministratori verso la società, negli ultimi anni, la giurisprudenza italiana ha parzialmente accolto il principio anglo-americano della c.d. Business Judgment Rule (BJR), che esclude la sindacabilità del giudice nel merito delle scelte gestorie. A tal proposito, con la recente ordinanza n. 6925 del 15.03.2025, la Suprema Corte ha ribadito che il beneficio della BJR incontra sempre il limite della ragionevolezza rispetto al processo decisionale adottato.

 Nell’ultimo ventennio, il nostro ordinamento si è mostrato sempre più incline a recepire gli istituti nati negli ordinamenti di common law, sia sul piano normativo che (ancor prima) su quello giurisprudenziale.

Tale tendenza sembra accentuarsi nell’ambito del diritto commerciale, che da sempre (per sua natura) detiene il primato nella discovery e nella regolamentazione delle prassi tipiche di altri ordinamenti.

Invero, anche la più “caratteristica” branca del diritto societario, in cui rientra la disciplina della responsabilità degli organi gestori, non sembra essere rimasta immune da tali influenze.

Infatti, proprio in tema di responsabilità degli amministratori nei confronti della società, sembra essere ormai accettato – quantomeno sul piano dell’orientamento giurisprudenziale – il principio della c.d. Business Judgment Rule (di seguito “BJR”), di origine tipicamente anglo-americana, volto a tutelare la discrezionalità degli amministratori nella gestione della società.

Ebbene, secondo tale principio, deve escludersi la sindacabilità del giudice nel merito delle scelte gestorie, con particolare riguardo alla valutazione della convenienza, dell’economicità e/o della remuneratività delle stesse; ciò anche in considerazione del fatto che l’organo amministrativo non assume alcun obbligo circa l’effettivo “successo economico” della società.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che la BJR può applicarsi solo alle decisioni adottate a determinate condizioni, tra cui l’assenza di conflitti d’interessi, la buona fede, la diligenza e (in particolare) la ragionevolezza.

Di conseguenza – pur rimanendo esclusa la sindacabilità delle scelte (in sè), anche qualora rivelatesi inopportune sotto il punto di vista economico – il giudice è chiamato a valutare nel merito il processo decisionale, seguito dagli amministratori, nell’adozione degli atti contestati; ciò al fine di determinare se gli stessi abbiano superato i suddetti limiti, compiendo scelte irragionevoli, sconsiderate o imprudenti senza averne preventivamente ponderato i rischi e/o adottato le opportune cautele.

Tale impostazione è stata recentemente confermata dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 6925 del 15.03.2025, la quale ha ribadito che “in tema di responsabilità dell'amministratore di una società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata, l'insindacabilità del merito delle sue scelte di gestione (cd. business judgement rule) trova un limite nella valutazione di ragionevolezza delle stesse, da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandatario, alla luce dell'art. 2392 c.c., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere (Cass., n. 15470/2017; Cass., n. 12108/2020). Il principio della insindacabilità del merito delle scelte di gestione non si applica, quindi, in presenza di irragionevolezza, imprudenza o arbitrarietà palese dell'iniziativa economica (Cass., n. 8069/2024)”.

Pertanto, gli Ermellini hanno ritenuto non applicabile il principio della BJR nell’ipotesi in cui gli amministratori dispongano, senza una valida ragione, la celere e infruttuosa liquidazione del patrimonio societario, confermando quanto precedentemente determinato dalla Corte d’Appello di Venezia, secondo la quale “non può esservi dubbio che la decisione di vendere una pluralità di immobili per un prezzo molto inferiore ai valori di mercato (valori che potevano essere facilmente accertati dagli amministratori) in assenza di ragioni che imponessero una repentina liquidazione del patrimonio immobiliare, si appalesi, quantomeno, gravemente negligente”.

In conclusione, appare evidente che il congruo bilanciamento tra gli interessi della società e la discrezionalità delle scelte gestorie risieda (anzitutto) nel criterio della ragionevolezza del processo decisionale e che questo consenta sia (i) agli amministratori di poter esporre la società ai rischi d’impresa doverosamente ponderati, senza dover necessariamente rispondere dell’eventuale insuccesso economico; che (ii) alla società di tutelarsi dal pericolo di una scellerata gestione, senza dover incorrere in una amministrazione eccessivamente “conservativa” e/o paralizzante rispetto alla potenziale crescita della stessa.

Avv. Andrea Bernasconi e Avv. Achille Iamele

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