Il contratto di licenza di un marchio in comproprietà: dopo la CGUE, il punto della Corte di Cassazione

Il contratto di licenza di un marchio in comproprietà: dopo la CGUE, il punto della Corte di Cassazione
Dopo che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-686/21) con sentenza del 27 aprile 2023 si era pronunciata sulle questioni di interpretazione del diritto comunitario relativamente alle “modalità di esercizio individuale del diritto esclusivo detenuto congiuntamente dai contitolari di un marchio”, la Corte di Cassazione, a quasi un anno di distanza, si è pronunciata in decisione, sulla scia di quanto disposto dalla CGUE.

Un passo indietro: la decisione della CGUE 

Come già avevamo avuto modo di notare con un precedente articolo del maggio 2023, con ordinanza interlocutoria n. 30749-21 la Corte di Cassazione – necessitando di chiarimenti in tema di comunione sul marchio a livello europeo – aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla CGUE, ai sensi dell'art. 267 del TFUE. La Suprema Corte aveva, infatti, domandato al giudice europeo se per concludere (o recedere da) un contratto di licenza di marchio in comproprietà fosse necessaria l’unanimità o bastasse la maggioranza e la risposta della Corte non era mancata. Nel decidere la questione sollevata, la CGUE aveva, infatti, affermato come il regolamento (CE) 40/94 – applicabile al caso concreto – riconosca la comproprietà di un marchio dell’Unione europea, e altresì come, in assenza di disposizioni che disciplinano le modalità di adozione delle scelte relative alla conclusione di contratti di licenza e/o al recesso dagli stessi, dette modalità sono disciplinate dal diritto dello Stato membro. In altre parole, le modalità di concessione di una licenza e/o il relativo recesso devono essere risolte – secondo la CGUE – in base al diritto nazionale applicabile. 

Ed è proprio sulla scorta di tale principio che la Corte di Cassazione nell’aprile 2024 si è trovata, dunque, a decidere la questione fino a quel momento sospesa.

I fatti di causa 

Per chi non conosca come si erano svolti i fatti di giudizio, facciamo un ulteriore passo indietro ricostruendo per sommi capi lo storico della vicenda.

Nel 1993, quattro contitolari di alcuni marchi concedevano unanimemente a una società “una licenza esclusiva, a titolo gratuito e a tempo indeterminato, sull’uso dei marchi”; ma, successivamente, nel 2006 uno dei licenzianti contitolari revocava il proprio consenso alla prosecuzione della licenza. Instauratasi, dunque, una controversia tra le parti, la questione veniva decisa, in primo grado, dal Tribunale di Napoli e, successivamente, dalla Corte d’Appello di Napoli, che – in senso opposto al giudice di prime cure – riteneva non necessario, ai fini della prosecuzione del contratto di licenza, il consenso unanime dei contitolari, ma riteneva che, per rendere lecito l’uso dei marchi da parte della società licenziataria, bastasse piuttosto la volontà concorde di tre contitolari su quattro alla prosecuzione del rapporto.

Avverso la sentenza, presentava, quindi, ricorso il licenziante dissenziente e resistevano i restanti contitolari e la licenziataria del marchio.

Il ragionamento e la decisione della Corte di Cassazione 

Partendo dall’assunto della CGUE in base a cui le decisioni riguardo alla concessione di una licenza d'uso (o relativo recesso contrattuale) devono essere disciplinate dal diritto dello Stato membro, la Cassazione considera applicabili al caso di specie le norme sulla comunione, in quanto compatibili. 

In particolare – rileva la Suprema Corte – fermo che l’art. 6 c.p.i. ammette la comunione del marchio, le norme civilistiche che vengono in esame nel caso de quo sono l’art. 1102 c.c., e soprattutto l’art. 1108 c.c.. Il primo, infatti, regola, l’uso del bene in comunione, disponendo che chiunque “può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”; mentre l’art. 1108 regola gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione della cosa comune.

La considerazione fondamentale della Corte attorno a cui si fonda la decisione è che “la concessione di licenze esclusive a terzi è un atto dispositivo del marchio, poiché, alterando la destinazione della cosa e impedendo agli altri partecipanti alla comunione di farne uso, incrina l'esclusività del diritto che è tipica della privativa”; pertanto – se disposta a maggioranza – la concessione di una licenza esclusiva è lesiva dei diritti di esclusiva dei contitolari dissenzienti. Ecco, quindi, che, secondo la Corte, una decisione del genere deve essere presa all’unanimità dei contitolari.

Da qui, dunque, il primo principio affermato dalla Corte di Cassazione: in caso di comunione su un marchio, per il perfezionamento di un contratto di licenza d’uso in via esclusiva a terzi, è necessario il consenso unanime dei contitolari; ciò poiché la concessione al licenziatario dell’esclusiva priva appunto i contitolari del godimento diretto dell’oggetto della comunione, rilevando, dunque, ai sensi dell’art. 1108, primo e terzo comma, c.c. 

Ma non è tutto.

Ciò che regola l’unanimità degli atti è, infatti, la tutela dei diritti della minoranza. E così, l’atteggiamento del contitolare del marchio dissenziente, che in corso di licenza, decide di revocare il proprio consenso alla prosecuzione della stessa, non può considerarsi semplicemente come “semplice ostruzionismo”, ma è “l’interfaccia del suo diritto”; senza peraltro che ciò possa considerarsi come una soggezione del gruppo alla volontà (dissenziente) del singolo.

Infatti – prosegue la Corte, con il secondo principio – dall’enunciato primo principio discende che, ove la licenza sia stata concessa in via esclusiva con l’accordo unanime dei contitolari licenzianti, è parallelamente “sempre possibile il venir meno della volontà di prosecuzione di uno dei medesimi, il quale non è vincolato in perpetuo alla manifestazione originaria”; ciò implicando “la necessità di rinegoziare l'atto mediante una nuova concessione, da concordare ancora una volta con unanimità dei consensi”.

Ecco, quindi, che in base a queste considerazioni, la Suprema Corte accoglie i primi quattro motivi del ricorso principale; e altresì dichiara inammissibile il ricorso incidentale della licenziataria, cassando la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, con rinvio alla medesima Corte per decidere – in diversa composizione – attenendosi ai due principi affermati.

Avv. Francesca Folla

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