Il fatto solo di frequentare un corso professionalizzante è di per sé tale da permettere a chi lo sta frequentando di essere inquadrato come “professionista” ai sensi del Codice del consumo? O meglio, qualora sorga un contenzioso tra l’organizzatore del corso professionalizzante e il frequentatore del detto corso, quest’ultimo può avvalersi delle tutele garantitegli dal Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005) in virtù della qualifica di “consumatore” o va considerato “professionista”? Questo appunto, il tema a cui la Corte di Cassazione ha fornito una risposta con la recente sentenza n. 8120 del 26 marzo scorso.
Il caso trae origine da una controversia per il mancato pagamento di alcune rate di un corso di formazione professionale per l’acquisizione della qualifica di estetista.
Precisamente, all’epoca del primo grado di giudizio, l’odierna ricorrente in Cassazione veniva convenuta avanti al Giudice di Pace di Tricase da parte della società organizzatrice del corso di formazione – di cui la stessa aveva appunto parzialmente fruito – per la condanna al pagamento di otto delle dodici rate del prezzo del corso. Costituitasi in giudizio, la convenuta eccepiva, tuttavia, sia la vessatorietà di alcune clausole del contratto sottoscritto con l’organizzatore del corso – in particolare di quelle che prevedevano a favore solo dell’organizzatore la possibilità di recedere ad libitum dal contratto e che parallelamente comportavano a carico della convenuta l’obbligo di pagamento delle rate residue a prescindere dalla causa del recesso (clausole firmate in blocco e non in forma specifica) – nonché la sopravvenuta impossibilità di fruire del corso per esigenza di accudire il proprio figlio.
Ebbene, se in primo grado il Giudice di Pace respingeva le domande attoree in accoglimento delle eccezioni della convenuta, successivamente il Tribunale di Lecce ribaltava il precedente intendimento, accogliendo le doglianze dell’organizzatore del corso. Precisamente – a detta del Tribunale – doveva escludersi sia che la convenuta avesse agito in qualità di consumatrice ai sensi del Codice del Consumo sia che le clausole sottoscritte avessero valore vessatorio e, parallelamente, che, ai fini della risoluzione contrattuale, avesse una qualche rilevanza il tipo di inadempimento o della impossibilità sopravvenuta.
Proposto, dunque, dalla donna ricorso in Cassazione, la Corte si mostrava, tuttavia, di diverso avviso rispetto al Tribunale leccese.
Il ricorso in Corte di Cassazione
La ricorrente affidava il ricorso a cinque motivi: di questi risulta certamente interessante il secondo. Con tale motivo, infatti, la ricorrente prospettava la violazione dell’art. 3 del D.lgs. 206/2005, rilevando come il giudice di merito avesse errato nel non considerarla quale “consumatrice” ai sensi di legge.
Si ricorda, infatti, che l’articolo 3 dispone che si intende “consumatore” “…la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta” mentre “professionista” è “la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”.
Ebbene, contrariamente a quanto rilevato dal suddetto giudice – ossia che “il contratto sarebbe stato stipulato per esigenze di tipo professionale, da un soggetto che, sebbene non fosse ancora professionista, mirava a diventarlo” – la ricorrente obiettava che il suo ruolo fosse da inquadrarsi non tanto come professionista, ma più correttamente come “consumatrice”, non avendo ancora alcuna professione al momento della stipula del contratto.
Le conclusioni della Corte
Dunque, un aspirante professionista (privo di professione) che frequenti un corso di formazione, appunto, professionalizzante, nei rapporti con la società organizzatrice del corso va considerato “professionista” o “consumatore” ai sensi del D.lgs. 206/2005? La Corte di Cassazione non ha dubbi: la ricorrente è da considerarsi “consumatore” perché ha sottoscritto il contratto con l’organizzazione allo scopo di diventare in futuro professionista, non essendo tuttavia ancora tale al momento della stipula dell’accordo stesso. È, infatti, “professionista” – precisa la Cassazione – “chi, nel momento in cui stipula, esercita la professione ed agisce per finalità a questa inerenti”; non essendo al contrario tale chi “aspiri ad una professione, che in quel momento tuttavia non ha”.