Con l’interessante sentenza relativa alla causa C-118/22, pubblicata il 30 gennaio 2024, la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è occupata del tema della conservazione dei dati genetici e biometrici delle persone condannate, affermando un importante principio in relazione alla corretta applicazione della direttiva (UE) 2016/680, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
Il caso di specie
La vicenda è accaduta in Bulgaria, dove una persona era stata iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di falsa testimonianza e, in seguito, condannata ad una pena definitiva di un anno con sospensione condizionale. Ottenuta la riabilitazione, il soggetto in questione aveva richiesto la cancellazione dai registri della polizia giudiziaria; il Ministero dell’Interno respingeva la domanda, affermando che una condanna penale definitiva non poteva comportare l’accoglimento di siffatta richiesta, nemmeno in caso di riabilitazione. Anche il Tribunale amministrativo di Sofia respingeva la domanda. La persona decideva, dunque, di adire la Corte suprema amministrativa, ritenendo che la conservazione dei propri dati personali, in quanto condannato che aveva già scontato la pena ed era stato persino riabilitato, non potesse godere di durata illimitata. Di qui, il rinvio alla Corte di Giustizia dell’UE, alla quale è stata rimessa la questione pregiudiziale se una legge nazionale che preveda la conservazione di dati personali biometrici e genetici di persone condannate in via definitiva e già riabilitate, senza concedere la cancellazione o la limitazione degli stessi, fino al decesso sia compatibile con la direttiva (UE) 2016/680.
La normativa di riferimento e l’analisi della Corte di Giustizia
La direttiva (UE) 2016/680 si occupa del trattamento dei dati personali delle persone fisiche da parte delle autorità per finalità di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati. La Corte, in primo luogo, ha ricordato che l’art. 4 par. 1 lett. c) della direttiva prevede che gli Stati membri rispettino il principio di minimizzazione dei dati, per cui la raccolta e la conservazione di dati personali, in un procedimento penale, deve a ciò confarsi. Inoltre, la conservazione di tali dati deve avvenire per un periodo di tempo non superiore a quello necessario al conseguimento delle finalità per cui sono trattati: devono, quindi, essere previsti termini precisi per la cancellazione (o comunque per stabilire la necessità di conservarli). A tanto si aggiunga che il trattamento di dati quali quelli biometrici e genetici, è consentito solo se strettamente necessario, ed è altresì previsto il diritto alla cancellazione dei dati se la loro conservazione non è più necessaria rispetto alle finalità del trattamento (art. 16).
La Corte ha, dunque, analizzato in maniera approfondita la fattispecie oggetto del ricorso.
È indubbio, infatti, che la conservazione di dati personali di condannati in via definitiva, che abbiano già scontato la relativa pena, potrebbe risultare necessaria anche dopo la cancellazione dal casellario giudiziale. Nel caso di specie, l’autorità bulgara aveva conservato le impronte digitali, la fotografia e il DNA della persona, oltre ai dati circa i reati commessi e le condanne subite. È emerso anche che per una condanna come quella subita dal ricorrente, dovuta a un reato perseguibile d’ufficio, i dati sono conservati fino al momento del decesso. Tuttavia, la natura e la gravità del reato commesso non possono giustificare, in ogni caso, la conservazione dei dati fino al decesso, risultando anzi quest’ultima in violazione del principio di minimizzazione dei dati. Inoltre, la riabilitazione della persona, in situazioni come quella oggetto della controversia, costituisce indizio della minore pericolosità dell’interessato, quale elemento da tenere in debito conto per ridurre il periodo di conservazione dei dati personali. Di conseguenza, la normativa nazionale che preveda la conservazione dei dati biometrici e genetici, fino al decesso, della persona condannata in via definitiva per un reato doloso perseguibile d’ufficio quale la falsa testimonianza, è risultata essere non adeguata. Ciò in quanto la persona interessata deve poter esercitare il diritto alla cancellazione degli stessi o comunque limitarne il trattamento.
Conclusioni
La Corte rimarca dunque l’importanza della tutela dei principi di minimizzazione dei dati e di limitazione della conservazione, già enunciati dall’art. 5 del Regolamento 2016/679 (“GDPR”). Anche con recenti sentenze, riguardanti la corretta applicazione della direttiva in esame in riferimento alla legislazione nazionale bulgara (C-180/21 e C-205/21), la Corte ha ribadito il fatto che il rispetto della normativa europea in tema di dati personali, soprattutto se riconducibili dati biometrici e genetici, deve prevalere su quella del singolo Stato membro che non li salvaguardi in maniera adeguata. Un termine particolarmente lungo come quello che individui il momento finale nel decesso dell’interessato, infatti, non è applicabile in modo indifferenziato e generalizzato, ma deve essere periodicamente verificato per valutare che l’esigenza di conservazione sia eventualmente venuta meno.
Avv. Rossella Bucca e Dott. Lapo Lucani