La Suprema Corte con sentenza n. 15118 del 31 maggio 2021 ha evidenziato come nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l'ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includere altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all'iniziativa del datore di lavoro.
Il caso
Una lavoratrice, responsabile della gestione commerciale delle commesse relative ad una società, veniva licenziata per pretese ragioni oggettive consistenti nella necessità di ridurre i costi fissi e nella contrazione del valore della produzione.
La lavoratrice adiva il Tribunale di Udine eccependo l'illegittimità della risoluzione del rapporto e deduceva che le condizioni economiche della società non rendevano affatto necessaria la soppressione del suo posto di lavoro, avvenuta solo per una scelta di mera opportunità d'impresa.
Deduceva ancora la ricorrente che subito dopo il suo licenziamento la società si era attivata nell'arco di 120 giorni, per gli stessi motivi, numerose procedure di licenziamento ex art. 7 della legge 604/66 e che quindi la società avrebbe dovuto attivare una procedura di licenziamento collettivo.
Si costituiva in giudizio la datrice di lavoro deducendo che nei mesi precedenti non vi erano stati altri licenziamenti, mentre in epoca successiva alcuni lavoratori avevano risolto consensualmente il loro rapporto di lavoro.
Le decisioni di merito
Con sentenza del 7 novembre 2016 il Tribunale di Udine respingeva tutte le domande proposte dalla ricorrente.
Contro questa decisione – limitatamente alla parte in cui il Tribunale aveva ritenuto corretta la mancata attivazione della procedura di licenziamento collettivo – proponeva appello la lavoratrice.
La Corte d'appello di Trieste, qualificato il licenziamento della lavoratrice come licenziamento collettivo ed accertata di conseguenza l'illegittima omissione da parte della società datrice di lavoro della procedura di cui all'art. 24, co. 1 quinquies ln 223/91, condannava la società a pagare alla lavoratrice un'indennità pari a 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto e condannava inoltre la società a rifondere all'appellante le spese del doppio grado.
Per la Cassazione di tale sentenza proponeva ricorso alla società, affidato a due motivi, cui resisteva la lavoratrice con controricorso.
Il giudizio di Cassazione
La Cassazione accoglieva il ricorso della società sulla base dei seguenti presupposti.
L'espressione « intende licenziare » contenuta nella norma in materia di licenziamenti collettivi (art. 24 L. 223/91), precisa la Corte, deve essere intesa come una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all'iter procedimentale di legge, mentre cosa ben diversa è l'espressione « deve dichiarare l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo » (art. 7 L. 604/66), che è invece imposta al fine dì intraprendere la procedura di conciliazione dinanzi all'ITL, e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento.
Secondo i giudici di legittimità, infatti, rientra nella nozione di « licenziamento » il fatto che un datore di lavoro procede, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo.
Da ciò ne discende che nel numero minimo di cinque licenziamenti, considerato come sufficiente ad integrare l'ipotesi del licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro, anche se riferibili all'iniziativa del datore di lavoro.
La sentenza, pertanto, venne cassata con rinvio ad altro giudice per l'ulteriore esame della controversia.
Avv. Francesca Frezza