La responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione di misure idonee per la tutela dell'integrità fisica dei dipendenti discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 cc, costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori.
Il caso
Una dipendente di Poste Italiane SpA con la qualifica di operatrice di sportello, proponeva ricorso, dinanzi al Tribunale di Napoli, nei confronti della società datrice di lavoro e dell'INAIL, al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico patito "da cui era derivato un disturbo post-traumatico da stress di grado grave stabilizzatosi solo nel 2005, quale conseguenza delle dieci rapine subite presso i menzionati uffici postali tra il 1985 ed il 2005".
La sentenza, che aveva accolto parte della domanda della lavoratrice, era stata confermata anche dalla corte territoriale che aveva stabilito che tutte le misure di sicurezza attuate dal datore di lavoro quali l'impianto di telesorveglianza, la bussola multitransito, la cassaforte con apertura a tempo programmata , la cassaforte con apertura programmabile ogni 15 minuti, l'impianto di teleallarme a tastiera programmata ei vari pulsanti antirapina direttamente collegati a Orion, erano tutte misure dirette a rendere infruttuosa per gli assalitori un'azione criminale di rapina, ma non certo a tutelare i dipendenti.
Come era emerso dalla prova testimoniale esperita, il fine, dunque, non era certamente quello di proteggere i lavoratori dalle rapine ma di fare in modo che questi non recassero troppi danni alla azienda, "vietando di consegnare valori ai rapinatori che tenessero in ostaggio i colleghi ed obbligandoli così ad assistere inerti alle percosse dei primi ai secondi e pretendendo il rimborso da parte del dipendente di quanto rapinato laddove avesse consegnato il denaro ».
Poste Italiane SpA proponeva ricorso in Cassazione lamentando che i giudici di merito avrebbero dovuto addebitare alla società un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non considerando che la responsabilità datoriale deve essere necessariamente collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da una fonte legislativa, ovvero suggeriti dalle conoscenze tecniche del momento, omettendo, tra l'altro, ogni esame e valutazione in ordine all'idoneità degli strumenti predisposti a fornire la tutela adeguata ai dipendenti.
Le considerazioni della Corte e la decisione
Osserva la Corte, con ordinanza del 15 luglio 2020 n. 15105 , che la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art . 2087 cc, costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua prescrizione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa e con riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, tutte le misure necessarie per la tutela dell'
Prosegue la Corte precisando che nelle ipotesi, poi, di attività lavorativa divenuta «pericolosa», come nella fattispecie, a causa delle numerose e continue rapine (ben dieci) subite dai dipendenti presso gli uffici postali di cui si tratta, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 cc non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva e tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa generata, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connessione rischio.
La Corte, richiamando la dottrina sul punto, rileva che la mancata predisposizione di tutti i dispositivi di sicurezza per la tutela della salute dei dipendenti sul luogo di lavoro viola l'art. 32 della Costituzione, che garantisce il diritto alla salute come primario ed originario dell'individuo, nonché le diposizioni antinfortunistiche , fra le quali quelle contenute nel D.Lgs. N. 626/94 ed altresì l'art. 2087 cc che, imponendo la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro, prevede un obbligo, da parte di quest'ultimo, che non si esaurisce "nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico ",di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente, ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio ".
La Corte, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto non provato dal datore di lavoro, sul quale incombeva l'onere della prova, di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno derivato alla dipendente, attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui, correttamente, i giudici di merito hanno ravvisato la violazione, ritenendo la sussistenza del nesso causale tra il danno avvenuto alla lavoratrice, a seguito delle dieci rapine subite, e l'attività svolta dalla stessa, senza la predisporre, da parte della datrice di lavoro, di adeguate misure dirette a tutelare i dipendenti.