Avv. Francesca Frezza
Il datore di lavoro può legittimamente porre fine al rapporto di lavoro a fronte di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ma, ove non ha esercitato tale potestà, non può mantenere in vita un rapporto nel quale la professionalità del lavoratore è pregiudicata dalla totale assenza di mansioni.
Una nota azienda di trasporti veniva condannata, con sentenza confermata dalla Corte d'Appello di Roma, a risarcire un dipendente per il danno, patrimoniale e non patrimoniale, derivatogli dalla privazione delle mansioni, avvenuta dal luglio 2005 fino al licenziamento.
A fondamento della decisione la Corte territoriale riteneva non fondata la deduzione dell'appellante secondo cui il mantenimento del rapporto di lavoro era avvenuto esclusivamente nell'interesse del lavoratore, in quanto a seguito della soppressione della posizione lavorativa da questi rivestita nella organizzazione aziendale (giornalista addetto all'ufficio stampa) il rapporto si era svolto al solo fine di cercare una soluzione concordata, che potesse preservarne l'occupazione.
Sul punto il giudice dell'appello osservava che il datore di lavoro poteva legittimamente porre fine al rapporto di lavoro a fronte di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento ma che, ove non avesse esercitato tale potestà, non poteva mantenere in vita un rapporto nel quale la professionalità del lavoratore fosse pregiudicata dalla totale assenza di mansioni.
La disciplina delle mansioni all'epoca vigente avrebbe consentito l'attribuzione al lavoratore, con il suo consenso, di mansioni inferiori— quando tale scelta fosse stata l'unica in grado di preservare l'occupazione— ma non il mantenimento di un rapporto svuotato totalmente di contenuto professionale
Avverso la sentenza proponeva ricorso in Cassazione l’azienda deducendo la legittimità del comportamento attuato perchè dovuto alla soppressione del posto occupato dal lavoratore, unico giornalista dipendente dell'azienda.
La privazione delle mansioni secondo il datore di lavoro era avvenuta nell’ambito di una lunga trattativa nella quale la conservazione del rapporto di lavoro era stata vantaggiosa per il lavoratore sicchè la società non aveva commesso alcun illecito.
La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso, con ordinanza n. 10023/2019 ha affermato che “la soppressione della posizione lavorativa occupata dal dipendente obbliga il datore di lavoro alla assegnazione al lavoratore di altre mansioni professionalmente equivalenti— ove disponibili nella organizzazione aziendale— nonché— previo consenso di quest'ultimo— anche di mansioni di contenuto professionale inferiore (cd. patto di demansionamento). La eventuale impossibilità di assolvere al suddetto obbligo di repechage costituisce elemento integrativo della fattispecie del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (in termini: Cass. sez. lav. 2 maggio 2018 nr. 10453). La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale, non può essere invece una alternativa al licenziamento”.
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