Il caso “MetaBirkin”: libertà di espressione o agganciamento parassitario negli NFT con marchio altrui?

Il caso “MetaBirkin”: libertà di espressione o agganciamento parassitario negli NFT con marchio altrui?
Una decisione tanto attesa quella della U.S. District Court, Southern District of New York, del 14 febbraio 2023, che ha visto confrontarsi in qualità di attrice la nota maison di lusso Hermès, produttrice delle costose borse Birkin, e l’artista californiano esperto di marketing noto con lo pseudonimo di Mason Rothschild, convenuto per aver creato e venduto online una collezione di cento NFT raffiguranti l’immagine di borse Birkin ricoperte di finta pelliccia colorata per oltre 1 milione di dollari. La teoria di Rothschild secondo cui le sue creazioni artistiche avrebbero goduto della protezione riconosciuta dal Primo Emendamento alla libertà di espressione non ha convinto la giuria, che lo ha condannato a risarcire 133.000 dollari a Hermès per contraffazione, sfruttamento parassitario e svilimento del marchio “Birkin”, nonché “cybersquatting” nell’uso del sito “metabirkins.com”.
I fatti di causa

Nel corso del 2021 l’imprenditore e artista Mason Rothschild, il cui vero nome è Sonny Estival, ha deciso di lanciare due progetti che prevedevano la creazione e vendita di NFT su blockchain raffiguranti le celebri borse Birkin di Hermès. In un caso si trattava di un breve video denominato “Baby Birkin” che raffigurava la crescita di un feto all’interno della borsa, venduto per 47.000 dollari, mentre nel secondo caso si trattava di una collezione di 100 immagini di borse Birkin tutte diverse tra loro e ricoperte di falsa pelliccia dai colori fantasiosi, poste su un piedistallo, denominate “MetaBirkin”, in risposta alla dichiarazione di Hermès di convertirsi al “fur-free”. Proprio quest’ultimo progetto ha infastidito la nota casa di moda, che voleva legittimamente inserirsi nel mondo del metaverso, come già fatto da altri noti brand di lusso, e che invece si è trovato a confrontarsi con gli NFT già messi in circolazione da Rothschild e non da lei autorizzati. Immagini che un domani avrebbero potuto diventare accessori degli avatar umani a spasso nel metaverso.

Pertanto Hermès ha chiesto che venissero riconosciuti la contraffazione del marchio “Birkin”, la sua diluizione in danno del carattere distintivo del marchio con agganciamento parassitario e appropriazione di pregi, cybersquatting nell’uso del sito “https://metabirkins.com” per la vendita degli NFT ed infine la concorrenza sleale.

In particolare, Hermès, riportando articoli di riviste e commissionando una ricerca di mercato, mirava a dimostrare la confusione ingenerata nel pubblico nel ritenere che il progetto fosse stato consentito o in qualche modo collegato alla casa di moda e che l’enorme ammontare di guadagni ottenuto dal Sig. Rothschild fosse stato merito della notorietà e fama della borsa nel mondo reale. Difatti, l’artista aveva dichiarato di essere “nella rara posizione di intimidire una società multimilionaria”, che il suo era un esperimento per vedere se riusciva a ricreare nel mondo digitale l’illusione che la borsa Birkin dà nella vita reale e, quindi, se le persone “effettivamente avrebbero attribuito valore alle MetaBirkin effimere nello stesso modo in cui attribuiscono valore alle borse Birkin fisiche”.

Quale test valutativo applicare: i precedenti Rogers e Gruner

Stando al valore dato nel sistema giuridico americano ai precedenti giurisprudenziali, il Giudice Rakoff, cui è stato assegnato il caso, si è chiesto se la valutazione sulla contraffazione del marchio fosse da effettuarsi secondo gli standard fissati nella decisione “Rogers c. Grimaldi” (875 F .2d 994, 1000, 2d Cir. 1989), occupatasi di definire quando un’espressione artistica che utilizza un marchio altrui non lo vìola perché protetta dalla libertà di espressione prevista dal Primo Emendamento della Costituzione Americana, oppure secondo gli standard definiti nel caso “Gruner + Jahr c. Meredith Corp.” (991 F .2d 1072, 2d Cir. 1993), che invece si era occupata di contraffazione del marchio nella vendita beni primariamente progettati per un mero sfruttamento commerciale.

Nel caso di specie, rigettando la teoria di Hermès, il Giudice ha ritenuto si dovesse applicare il Rogers test poiché comunque le immagini compravendute sul web potevano costituire una forma di espressione artistica al pari delle riproduzioni dei barattoli di zuppa Campbell di Andy Warhol. Il Giudice ha però ritenuto che, in presenza di fatti determinanti e contestati dalle parti, sarebbe stata la giuria a stabilire la presenza o meno dei due fattori che, secondo lo schema del Rogers test, avrebbero comunque impedito la liceità del fatto nonostante la libertà di espressione artistica protetta dal Primo Emendamento, ovvero: 1) l’uso del marchio nel lavoro espressivo in maniera non “artisticamente rilevante”, giustificato solo dalla volontà di associare l’opera al marchio per sfruttarne la popolarità e 2) l’uso del marchio per ingannare il pubblico in quanto alla provenienza o al contenuto dell’opera.

La giuria avrebbe dovuto esprimersi sulla probabilità di confusione del pubblico secondo i fattori definiti nel precedente “Polaroid Corp. c. Polaroid Elecs. Corp.” (287 F .2d 492, 2d Cir. 1961), andando quindi a valutare: 1) la forza del marchio di Hermès era tale da meritarsi una maggiore protezione; 2) il grado di somiglianza tra i segni “Birkin” e “MetaBirkin”; 3) l’effettiva confusione del pubblico sull’affiliazione tra Hermès ed il progetto “MetaBirkin” di Rothschild; 4) la verosimiglianza che Hermès entri nel commercio di NFT; 5) la prossimità competitiva dei prodotti nel settore di mercato rilevante; 6) la malafede di Rothschild nell’usare il marchio di Hermès; 7) la qualità dei marchi “Birkin” e “MetaBirkin”; 8) il grado di discernimento e tipologia del consumatore da prendere a modello come pubblico.

La decisione della giuria e brevi considerazioni finali

La giuria, concentrandosi sulla possibilità confusoria ingenerata negli acquirenti e sull’intenzionalità di tale confusione nei progetti di Rothschild, ha ritenuto che le opere non dovessero godere della tutela concessa dal Primo Emendamento, poiché avevano un potenziale ingannatorio e parassitario e che tale confusione era stata volutamente indotta dall’artista, condannando quest’ultimo al risarcimento dei danni subiti da Hermès per la, alquanto modesta, somma di 133.000 dollari.

La definizione del primo processo con giuria americano a tema NFT e sfruttamento non autorizzato di marchio altrui fa luce sulla valutazione dei molti casi di contraffazione circolanti sugli online marketplace di NFT (OpenSea, Rarible, Mintable…), dettando le regole valutative dell’illecito, che risultano essere le medesime da sempre valide nel mondo reale.

Nelle dispute in campo blockchain sull’uso di marchi altrui in opere artistiche bisognerà però prestare maggiore attenzione all’interscambio tra le varie piattaforme di vendita di NFT, poiché alcune potrebbero conformarsi alle diffide o agli ordini del giudice e altre no, permettendo un ricaricamento o trasferimento dei contenuti illeciti, oppure bloccandone l’accesso agli acquirenti solo per certi territori e non per tutti. Inoltre, sarà importante ricordare la separazione tra NFT/smart contract presente su chain e la rappresentazione digitale in essi contenuta, metadato che solitamente si trova off-chain per via delle dimensioni (su un link/URL salvato su server o cloud esterno alla blockchain) e su cui il titolare dell’opera e responsabile dell’illecito può intervenire, eliminando l’accessibilità all’opera anche quando l’NFT, come noto, non potrà mai eliminarsi del tutto essendo stato registrato su blockchain.

Avv. Chiara Arena

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