Sono ingiuriose e non giustificate nemmeno dallo scadente livello espressivo tipico dei social quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose o animali: paragonare un essere umano (nella fattispecie, un bambino) a un "animale", inteso addirittura come "oggetto", visto che il padre ne viene definito "proprietario", è certamente locuzione che conserva intatta la sua valenza offensiva.
Lo ha sancito la Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 34145 del 26 luglio scorso, precisando che, se è vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune "aperture" verso un linguaggio più diretto e "disinvolto", è però altrettanto vero che talune espressioni presentano ex se carattere insultante.
Sono obiettivamente ingiuriose, in particolare, quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose o animali, per cui le espressioni poste all’esame della Suprema Corte non possono non essere ritenute illecite, pure se inserite nel quadro di degrado del codice comunicativo a cui si assiste soprattutto sui social media.
Avv. Flaviano Sanzari