Adesione ad offerta pubblica

Adesione ad offerta pubblica
La clausola predisposta unilateralmente dalla banca e che palesemente penalizza la posizione contrattuale del risparmiatore-investitore deve essere negoziata separatamente ed effettivamente con il cliente. In difetto, la clausola è nulla perché vessatoria ai sensi e per gli effetti degli artt. 33, 34 e 36 del Codice del Consumo, determinando a carico del cliente-consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Lo ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza del 26 luglio 2016, n. 15408.

Nel caso di specie, il cliente aveva acquistato obbligazioni in adesione ad un’offerta pubblica per un prestito obbligazionario sul mercato russo con capitale garantito e, successivamente, contestato (con esiti negativi dinanzi al tribunale e poi presso la corte d’appello a Milano) la clausola contrattuale in base alla quale la banca aveva cessato di corrispondere gli interessi essendo emerso che la Russia versava in condizioni di default in relazione al suo debito estero. Per l’effetto il cliente aveva chiesto la condanna della Banca al pagamento degli interessi sul prestito obbligazionario al tasso convenzionale del 6,40% annuo. Secondo la Corte di Cassazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto verificare se tale clausola fosse stata negoziata separatamente ed effettivamente tra le parti. Più nello specifico la Suprema Corte ha censurato la Corte d’Appello, che si è limitata ad affermare che per l’alea implicita in un contratto come quello di causa, che garantiva al risparmiatore-investitore un saggio di interesse pacificamente superiore al tasso legale e a quello delle obbligazioni emesse da società o enti di indiscussa solidità, non fosse possibile ipotizzare alcuno squilibrio tra le posizioni dei contraenti derivante dalla sola riserva di non corrispondere gli interessi nell’ipotesi di verificazione di determinati eventi preventivamente descritti anche con riguardo alle fonti deputate ad acclararne la verificazione.

Si tratta, per gli Ermellini, di una motivazione del tutto apodittica in quanto si limita ad affermare l’alea implicita nel contratto non consentendo di verificare non solo la reale volontà delle parti, ma anche la capacità di tale clausola di alterare significativamente il sinallagma contrattuale a favore del predisponente. Sempre ad avviso della Corte di Cassazione, nella sentenza riformata la Corte non aveva riservato alcuna attenzione all’entità del maggior saggio di interesse corrisposto  dalla banca a fronte del suo profitto imprenditoriale connesso al regolare andamento del titolo. Così come nessuna attenzione è stata accordata al funzionamento della clausola e alle conseguenze in caso di default dell’emittente. In particolare, a fronte di una clausola che attribuisce, in questa ipotesi, l’unilaterale potestà di sospendere l’erogazione degli interessi andava verificata l’esistenza di un eventuale meccanismo di riduzione degli stessi e/o facoltà del risparmiatore di richiedere ed ottenere il rimborso anticipato del capitale. La clausola oggetto di doglianza è stata quindi dichiarata nulla dagli Ermellini in quanto l’ipotesi di default dello Stato emittente ed il conseguente impatto sul pagamento degli interessi non erano stati oggetto di specifica e separata negoziazione.

Avv. Daniele Franzini

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