Libertà religiosa e discriminazione sul luogo di lavoro

Libertà religiosa e discriminazione sul luogo di lavoro
La recente decisione della Corte di Cassazione, sezione lavoro, del 2 novembre 2021 induce a soffermarsi sul delicato tema del bilanciamento tra iniziativa privata ed esercizio della libertà religiosa, in una società sempre più multietnica e multiculturale.
Dal “caso Cordero” al “caso di Trento”

La giurisprudenza ha seguito un costante percorso evolutivo. Con il noto ”caso Cordero” la Corte Costituzionale (sentenza n. 195 del 1972) riconobbe il diritto dell’ Università Cattolica di poter recedere dal rapporto di lavoro con i propri docenti nel momento in cui i loro indirizzi religiosi ed ideologici risultavano essere in contrasto con quelli che caratterizzano la scuola, rigettando così la questione di legittimità costituzionale sollevata.

La recente decisione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31071 del 2 novembre 2021, ha ritenuto invece discriminatoria la condotta di un Istituto religioso che non ha rinnovato il contratto di lavoro ad una professoressa di una scuola cattolica a causa del suo orientamento sessuale.

L’istituto è stato condannato anche a risarcire l’insegnante per il danno da discriminazione. Il principio di diritto affermato dalla Corte è che l’orientamento di una scuola religiosa non costituisce una ragione giustificativa di condotte discriminatorie, tanto più se si tratta di un istituto paritario.

L’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione è diametralmente opposto a quello che fu della Corte Costituzionale nel 1972, facendo intendere che il tema del giusto contemperamento tra iniziativa privata e libertà religiosa è in aperta evoluzione.

Il difficile equilibrio

Non è tuttavia sempre agevole individuare il punto di equilibrio come è rilevabile dalle contrastanti decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 12 marzo 2020 si è pronunciata su due casi riguardanti l’esercizio del diritto di obiezione di coscienza in relazione a pratiche abortive.

La Corte nel respingere i ricorsi presentati da due infermiere (caso Steen e Grimmark versus Svezia) rileva che le ricorrenti al momento della sottoscrizione del contratto di assunzione erano a conoscenza dell’espletamento di pratiche abortive all’interno delle cliniche mediche e pertanto il loro rifiuto ad esercitare tali operazioni chirurgiche risultava essere del tutto ingiustificato e non poteva ritenersi prevalente.

Il contemperamento del rispetto dei precetti religiosi con esigenze produttive aziendali non sempre appare una operazione agevole.

La Corte di Appello di Milano con sentenza n. 579 del 20 maggio 2016, in riforma della sentenza del Tribunale di Lodi, ha dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento della società datrice che non aveva ammesso la ricorrente a delle selezioni per il lavoro di hostess.

Il rifiuto della società era dato dalla decisione della ricorrente di non voler togliere il velo, lo hijab, espressione del suo credo religioso, che impediva però alla candidata di mostrare i suoi capelli.

La Corte motiva la sua decisione ritenendo che la società non avesse indicato nell’annuncio di lavoro come requisito fondamentale il mostrare i capelli, ma indicava come elementi fondamentali essere di bella presenza e portare il 37 di piede. Il rifiuto della società è pertanto, secondo i giudici del collegio, espressione di una discriminazione nei confronti della lavoratrice.

Una siffatta conclusione potrebbe non apparire in linea con l’attuale evoluzione della giurisprudenza eurounitaria per la quale il datore di lavoro deve cercare di garantire una neutralità politica, filosofica o religiosa al fine di evitare eventuali conflitti anche con i clienti.

Il tema di estrema attualità presenta quindi complessi nodi interpretativi che la giurisprudenza fatica a risolvere indicando la via da seguire nel difficile punto di incontro tra le esigenze aziendali e il rispetto di canoni comportamentali religiosi.

Avv. Nicoletta Di Lolli

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