
Con ordinanza n. 11161 del 28 aprile 2021, la Quinta Sezione della Suprema Corte di Cassazione ha reso la seguente massima: "La qualità di socio e amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l'assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare”.
Il caso in esame
La Commissione Tributaria Regionale dell'Emilia Romagna accoglieva il ricorso proposto da una società a responsabilità limitata, sostenendo che la remunerazione del socio per l'acquisizione di clienti, la gestione e il controllo dell'attività svolta era stata correttamente qualificata quale compenso nei confronti dello stesso in quanto amministratore della società stessa, e non di lavoratore subordinato.
Ricorreva in Cassazione l'Agenzia delle Entrate, affermando, anzitutto, che la ricostruzione effettuata in secondo grado non fosse conforme alla realtà, essendo il presupposto della decisione basata sull'incompatibilità tra la qualifica di socio e amministratore di società a responsabilità limitata e quella di lavoratore dipendente della stessa.
A detta della ricorrente, infatti, tale inconciliabilità sarebbe stata riscontrabile solo nei confronti degli amministratori unici e dei presidente del consiglio di amministrazione, in quanto in tali casi sarebbe stato assente “ l'effettivo assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare di altri , che è requisito tipico della subordinazione ”.
Lo svolgimento
A detta della Suprema Corte, conformemente alla propria giurisprudenza precedente, “ la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato , anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risultano da un concreto assoggettamento del socio-dirigente alle direttive ed al controllo dell'organo collegiale amministrativo formato dai medesimi dovuti soci ”.
Le due cariche (quella di socio e amministratore e quella di lavoratore subordinato della medesima società) sarebbero quindi compatibili certo, a patto che il soggetto interessato svolga mansioni diverse e ulteriori rispetto a quelle connaturate alla qualità di amministratore, con in aggiunta “l'assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare ” altrui.
Il vincolo di subordinazione sarebbe assente soltanto in caso di amministratore unico, poiché in siffatta ipotesi mancherebbe “ la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina , escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla”.
Lo stesso discorso varrebbe anche nei confronti del socio di maggioranza di società di capitali, “ attesa la sostanziale estraneità dell'organo assembleare all'esercizio del potere gestorio ”, sempre salvo il caso di socio "unico azionista" o di "socio sovrano".
Conclusione
Esaminando il caso concreto posto alla sua attenzione, la Suprema Corte accoglieva quindi il ricorso presentato dall'Agenzia delle Entrate, basando la propria decisione sul fatto che il socio era consigliere di amministrazione insieme all'altro socio, nonché titolare del 50% delle quote sociali . In quanto tale, non verificandosi le ipotesi di amministratore unico o “socio sovrano”, ben poteva le sue cariche ritenersi compatibili con lo svolgimento di attività lavorativa subordinata alle dipendenze della società.
Avv. Andrea Bernasconi e Avv. Martina Caldelari