Avv. Alessandro La Rosa
Importanti novità nel contrasto alla pirateria arrivano dall’Inghilterra, dove l’High Court of Justice, provvedendo su un ricorso depositato da Football Association Premier League (FAPL), lo scorso 13 marzo c.a. ha emesso un ordine che -prendendo atto dell’attuale stato di avanzamento della tecnologia– darà un contributo decisivo alla lotta alla diffusione di contenuti illeciti sul web.
Il provvedimento giunge a seguito di un’iniziativa di Football Association Premier League con cui veniva richiesto a sei Internet Service Providers (ISPs) il blocco d’accesso di diversi “streaming servers”, che trasmettevano senza autorizzazione partite live della Premier League.
Sulla scorta di tale richiesta, la Corte britannica ha imposto agli ISP di inibire ai propri utenti non solo l’accesso ai nomi di dominio di determinati siti pirata ma anche l’accesso ai server che consentono ai detti siti di operare, attraverso il blocco dei relativi indirizzi IP (i.e. il codice numerico che, nel caso di specie, identifica i server in questione).
Inoltre la Corte ha dato atto della consuetudine dei gestori di tali servizi di modificare in modo “dinamico” gli indirizzi IP in questione -al fine di aggirare i provvedimenti emessi dalle autorità giudiziarie- ed ha così imposto agli ISPs di usare ogni strumento tecnologico nella loro disponibilità per bloccare, limitatamente alla durata delle gare calcistiche in questione, non solo gli indirizzi IP già esistenti ma anche gli ulteriori indirizzi IP eventualmente utilizzati in futuro per aggirare gli ordini di blocco.
Tuttavia, la vera novità in fatto di tutela della decisione inglese sta nell’avere per la prima volta imposto ai fornitori di connessione a internet di inibire non solo l’accesso al DNS di un portale web (scenario tipico ormai delle decisioni del Regno Unito, cfr. Newzbin 2 del 2011), bensì l’accesso ai singoli server di streaming (fonte dell’attività illecita), sia pure solo per il periodo di trasmissione delle partite.
La decisione in commento è andata oltre, permettendo l’applicabilità della misura inibitoria a server di streaming accessibili non soltanto da siti web ma anche da una serie di ulteriori dispositivi, come applicazioni di smartphone, lettori multimediali, ecc. Tale tutela si è resa necessaria, come si legge nella decisione inglese al punto 11, per porre rimedio al continuo sviluppo della tecnologia che ha permesso agli user di accedere facilmente a trasmissioni non autorizzate di eventi sportivi live attraverso nuovi strumenti. In particolare, i server di streaming sono collegamenti chiave nella catena della distribuzione della copertura non autorizzata di eventi live. Infatti, lo stesso flusso o lo stesso server è accessibile da più applicazioni, siti web, ecc. Se il server di streaming è bloccato, allora nessun dispositivo può accedere al contenuto non autorizzato.
La tutela richiesta da Football Association Premier League comprenderebbe poi una serie di criteri -alcuni rimasti confidenziali per non facilitarne l’aggiramento- utili, appunto, ad individuare quei server da bloccare (punto 21). Tra questi, per esempio, il ragionevole accertamento che il server da inibire abbia lo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare l’accesso non autorizzato a flussi di trasmissione di partite di Premier League; o il non avere alcun motivo di credere che il server venga utilizzato per altri scopi sostanziali.
Altro aspetto interessante della decisione riguarda la questione se l’attività di streaming degli operatori dei server costituisca o meno atto di comunicazione al pubblico (nuovo), rilevante ai sensi della Direttiva 2001/29/CE (InfoSoc.). Il giudice inglese ha deciso in senso affermativo; ciò, anzitutto, perché gli operatori "intervengono deliberatamente, e in piena conoscenza delle conseguenze delle loro azioni, per dare accesso alle Opere nelle circostanze in cui gli utenti non sarebbero in linea di principio in grado di godere le opere senza quell’intervento" (punti 34-37). E’ evidente che tale reasoning ripercorre quanto precedentemente stabilito dalla Corte di Giustizia Europea nel caso Svensson (C-466/12 – già commentata qui).
In aggiunta, la Corte britannica ha anche preso in considerazione l’ipotesi in cui i server forniscano un mero collegamento a fonti liberamente (“freely”) disponibili (punto 37). In tal caso, il discrimine risiederebbe nell’intenzionalità degli operatori dei server a lucrare sulla loro attività di streaming (“profit-making intention”). Infatti, sulle orme della motivazione resa in GS Media (CJEU C-160/15 - già commentata qui), il giudice inglese ha ritenuto che le circostanze del caso mostrano come tali operatori agiscano a fine di lucro, spesso sotto forma di introiti pubblicitari, affermando che ciò deve far presumere che tali atti di comunicazione siano rivolti a un nuovo pubblico. Tale orientamento della Corte inglese costituisce dunque la prima vera applicazione (in UK) dei principi sanciti dalla CJEU in GS Media.
La decisione inglese è ulteriormente rilevante poiché si aggiunge a una considerevole schiera di provvedimenti di Corti nazionali (tra cui l’Italia) ormai allineate con i principi dettati dalla Corte di Giustizia nella decisione Telekabel (C-314/12 – già commentata qui). In particolare, coerentemente con la CJEU, la Corte inglese ha confermato, da una parte, il ruolo fondamentale (e la necessaria collaborazione) degli ISP (in qualità di intermediari con cui gli user possono accedere ai contenuti) nella lotta contro le opere illecitamente diffuse sul web, dall’altra, ha ritenuto necessario riconciliare la tutela del copyright con la libertà d’informazione. Al fine di raggiungere tale riconciliazione, la Corte ha dichiarato che il blocco inibitorio debba essere strettamente mirato –nel caso di specie, temporaneo e indirizzato targeted servers- nel senso di non privare inutilmente gli utenti Internet dell’accesso ai contenuti legittimi.
In conclusione, l’innovativo provvedimento inglese individua per la prima volta nell’ordine (temporaneo) agli Internet Service Provider di inibire “alla fonte” qualunque possibilità di accesso ai server di streaming la misura necessaria a tutelare i titolari di diritto d’autore e diritti connessi da utilizzi non autorizzati, ritenendola giustificata quale adattamento applicativo della normativa vigente ai più recenti sviluppi tecnologici ed alle maggiori possibilità di accesso online a contenuti live che ne conseguono. In Italia, un provvedimento del tutto analogo è stato adottato dal Tribunale delle Imprese di Milano nel gennaio 2016 su richiesta di Mediaset Premium s.p.a. per il blocco del noto portale “Rojadirecta”.
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