Avv. Francesca Frezza
È illegittimo il licenziamento del lavoratore che, nel criticare con uno scritto il superiore gerarchico, si sia limitato a difendere la propria opinione senza travalicare la soglia del rispetto della verità oggettiva esternando il proprio pensiero con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro e del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa.
E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza del 26 ottobre 2016, n. 21649, mediante la quale ha rigettato il ricorso dell’azienda e confermato la statuizione della Corte di appello di Napoli.
La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte riguardava il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, in una missiva inviata al proprio datore di lavoro, con allegato parere pro veritate di un avvocato penalista, aveva denunciato comportamenti offensivi e scorretti del proprio superiore gerarchico in suo danno.
La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione della corte partenopea che aveva ritenuto illegittimo il provvedimento del datore di lavoro, precisa che con la lettera in esame, il lavoratore ha legittimamente esercitato il proprio diritto di critica nei confronti del comportamento tenuto dal proprio superiore nel rispetto dei principi di continenza formale e sostanziale al fine di sollecitare l’attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all’interno dei luoghi di lavoro ed evitare conflittualità
Dai superiori rilievi argomentativi, conclude la Corte, “si evince la palese inidoneità del comportamento contestato a ledere definitivamente la fiducia alla base del rapporto di lavoro, integrante violazione del dovere posto dall’art. 2105 c.c., tale da costituire giusta causa di licenziamento, con la conseguente infondatezza del mezzo, meritevole di rigetto”.
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