Con il d.d.l. n. 2526, al momento all’esame del Senato, il legislatore italiano sembra intenzionato a colmare il gap creatosi negli anni tra normativa tributaria e mondo dell’impresa, che consente alle digital company di sottrarsi al pagamento delle imposte nonostante gli ampi ricavi prodotti nel nostro mercato.
Al momento, infatti, le leggi applicabili in materia tributaria subordinano la possibilità di tassare le imprese – che pur realizzino profitti nel nostro paese – al fatto che queste abbiano impiantato una stabile organizzazione ovvero una sede materiale fissa. Questa norma, figlia di un’epoca in cui la produzione era necessariamente legata ad impianti fisici, mal si adatta al mondo dematerializzato che caratterizza oggi la digital economy.
Il disegno di legge all’esame del Parlamento mira a porre rimedio a questa situazione, erosiva per la finanza pubblica, presumendo l’esistenza di una stabile organizzazione laddove un soggetto non residente manifesti la propria presenza sul circuito digitale ponendo in essere un numero di transazioni superiore, in un singolo trimestre, alle cinquecento unità (con una “soglia di allarme” che si attiva a quota 200 per soggetti non titolari di partita IVA) e/o percepisca nel medesimo periodo un ammontare complessivo non inferiore al milione di euro. Il tutto indipendentemente dalla presenza di beni materiali “fissi”.