Appalto privato: quale rapporto tra recesso del committente, restituzione degli acconti e risarcimento dei danni?

Appalto privato: quale rapporto tra recesso del committente, restituzione degli acconti e risarcimento dei danni?
Il committente che decida di recedere da un contratto di appalto privato può pretendere dall’appaltatore la restituzione degli acconti versati a causa dell’inadempimento di quest’ultimo? Può il committente chiedere il risarcimento dei relativi danni patiti a causa di tale inadempimento? La Corte di Cassazione, con la sentenza dell’8 gennaio 2024 n. 421, ci fornisce, tra i diversi profili affrontati, una panoramica su questi aspetti.

Il caso

La pronuncia della Corte di Cassazione trae origine da una controversia tra una società appaltatrice e il committente dell’appalto, consistente più precisamente nell’esecuzione di alcuni lavori di ristrutturazione di un immobile.

Con atto di citazione, la società appaltatrice conveniva in giudizio il committente dei lavori avanti al Tribunale di Roma, chiedendo:

  • l’accertamento dell’intervenuto scioglimento del contratto di appalto per recesso del committente;
  • l’accertamento dell’inadempimento del committente all’obbligazione indennitaria in favore dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1671 c.c., avendo il primo impedito alla società di completare l’esecuzione dell’opera
  • la condanna del committente al pagamento di circa 190mila euro.

Si costituiva in giudizio l’appaltante, il quale, di contro, chiedeva (i) che fosse accertato l’inadempimento contrattuale della ditta appaltatrice a causa della parziale e cattiva esecuzione delle opere commissionate e (ii) in via riconvenzionale, la declaratoria della intervenuta risoluzione del contratto per colpa della società appaltatrice, con conseguente condanna di quest’ultima alla restituzione della somma versatale a titolo di acconto e al risarcimento dei danni patiti dalla committente.     

Il Giudice di prime cure accoglieva parzialmente le domande attoree, accertando l’intervenuto recesso del committente e condannandolo al pagamento a favore dell’appaltatore delle lavorazioni eseguite e non saldate.

L’appaltatore impugnava, dunque, la sentenza in appello, ma, ancora una volta, sebbene in parziale riforma della sentenza appellata, anche la Corte d’appello di Roma confermava le statuizioni adottate dal giudice di primo grado, riducendo invece la somma dovuta a titolo di lavorazioni eseguite e non saldate. Il committente proponeva, pertanto, ricorso in Cassazione – affidato a dodici motivi – avverso la sentenza d’appello.

Il principio di diritto della Corte di Cassazione

Ebbene, prima di entrare nel vivo del ragionamento dei giudici di legittimità, è bene anticipare che la Suprema Corte accoglieva questa volta il ricorso del committente. In particolare, nel cassare con rinvio la sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione chiariva come l’esercizio del diritto di recesso da parte del committente ai sensi dell’art. 1671 c.c. non preclude la facoltà di quest’ultimo di richiedere la restituzione degli acconti versati all’appaltatore nonché di richiedere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza delle condotte inadempienti di quest’ultimo in corso d’opera. Peraltro – proseguiva la Corte – “in tale evenienza, la contestazione di difformità e vizi, in ordine alla parte di opera eseguita, non ricade nella disciplina della garanzia per i vizi, che esige necessariamente il compimento dell’opera.

Ma come giunge la Cassazione ad affermare tale principio di diritto?

Le motivazioni

In primo luogo, la Suprema Corte ribadisce che il recesso dal contratto d’appalto ai sensi dell’art. 1671 c.c. può essere esercitato dal committente ad nutum, in qualunque momento successivo alla conclusione del contratto (purché prima del compimento dell’opera), anche per sfiducia verso l’appaltatore per ragioni di inadempimento. In questo caso – chiarisce la Corte – il contratto si scioglie per iniziativa unilaterale del committente e non è necessario fare indagini sull’importanza e sulla gravità dell’inadempimento dell’appaltatore; ciò, salvo il caso in cui l’inadempimento stesso giustifichi una richiesta di risarcimento da parte del committente per i danni patiti. E ancora, sebbene il committente che eserciti il suo diritto di recesso a causa dell’inadempimento dell’appaltatore non possa certamente chiedere in un secondo momento la risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore, lo stesso potrà tuttavia chiedere che l’inadempimento venga accertato per ottenere la restituzione degli acconti versati e il risarcimento dei danni eventualmente patiti.

Non sono, dunque, incompatibili, le richieste restitutorie e risarcitorie con una domanda di recesso. Eventualmente, laddove l’art. 1671 c.c. prescrive che il committente recedente deve tenere “indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”, l’inadempimento dell’appaltatore potrà essere tenuto in conto quale parametro per riproporzionare l’indennizzo dovuto dal committente all’appaltatore.

In secondo luogo – proseguono i Giudici – tali domande restitutorie e risarcitorie “non sottostanno alla disciplina speciale sulla garanzia per i vizi” di cui all’art. 1667 c.c. e al relativo regime prescrizionale di due anni, ma sono soggette al generale regime di responsabilità per inadempimento contrattuale ai sensi dell’art. 1453 c.c. e relativo regime prescrizionale decennale.

L’articolo 1667 c.c. dispone, infatti, che l’appaltatore è tenuto a garantire il committente (che non abbia accettato l’opera) da eventuali vizi o difformità dell’opera; ciò purché la denuncia degli stessi venga effettuata entro 60 giorni dalla relativa scoperta e comunque nei limiti della relativa prescrizione: due anni dal giorno della consegna dell’opera.

Ma cosa succede se l’opera non è mai stata consegnata?  La Cassazione è chiara in merito: come poco sopra detto, non si applicherà il regime speciale dell’articolo 1667 c.c., ma quello generale di cui all’art. 1453 c.c. Infatti, “venuto meno il rapporto fiduciario tra le parti dell’appalto, per effetto dell’esercizio di recesso dell’appaltante, nessuna equiparazione può essere disposta tra completamento dell’opera definitiva e interruzione dei lavori”. Laddove, infatti, il committente – una volta sciolto il rapporto sulla scorta del proprio ius poenitendi – intenda “ottenere la riparazione dei danni conseguenti a fatti di inadempimento addebitati” all’appaltatore “e accaduti in corso di opera, prima che fosse fatto valere il recesso” si applicherà piuttosto l’art. 1453 c.c., ossia il più generale regime di inadempimento nei confronti dell’appaltatore.

Avv. Francesca Folla

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