Avv. Flaviano Sanzari
Essere dimenticati dai motori di ricerca è una sfida che deve ancora fare i conti, almeno fino a quando non si pronunceranno le Sezioni Unite della Cassazione, con le decisioni - non univoche - dei tribunali nazionali. Il principio di certezza del diritto, però, impone da subito l’individuazione di criteri precisi da applicare a ciascun caso concreto.
Il maggior nodo da sciogliere riguarda l’attualità della notizia o, in altre parole, quanto tempo deve trascorrere prima che scatti il diritto a vedere cancellate le informazioni personali dalla rete o quanto meno alla deindicizzazione dai motori di ricerca. A marzo scorso, il Tribunale di Milano (sentenza n. 3578) ha affermato che quattro anni possono definirsi un ragionevole lasso di tempo dopo il quale l’utente può chiedere che la notizia venga confinata nell’archivio informatico della testata e non sia più reperibile attraverso semplici citazioni del proprio nome e cognome su motori di ricerca generalisti. E, a settembre, lo stesso tribunale (sentenza n. 7846) ha ribadito la necessità del ridimensionamento della visibilità degli utenti.
Il diritto all’oblio, qualificato come diritto fondamentale della persona, non è però assoluto, dovendo essere bilanciato con altri diritti di pari grado, come il diritto all’informazione e alla trasparenza. La questione, come accennato, è talmente controversa che la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28084 del 5 novembre scorso, ha rimesso gli atti al Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, che potrebbero quindi essere chiamate a fare chiarezza. Il caso prende le mosse dalla richiesta di un utente, che dopo 12 anni di carcere e un faticoso reinserimento sociale, si era trovato nuovamente al centro dell’attenzione a causa di un articolo su un giornale locale che aveva ripreso la sua storia per una rubrica dedicata agli omicidi del passato. L’indicizzazione della notizia online aveva di fatto vanificato il suo percorso di recupero, tanto da portarlo a chiedere giustizia fino all’ultimo grado di giudizio.
Tecnicamente, il diritto all’oblio è stato cristallizzato dall’articolo 17 del regolamento Ue 2016/679 (il cosiddetto Gdpr), che ha previsto espressamente la possibilità dell’utente di ottenere la cancellazione dei propri dati personali dal titolare del trattamento, quando non sono più necessari rispetto alla finalità per la quale erano stati originariamente raccolti. Prima di allora, il diritto all’oblio era stato frutto di interpretazioni giurisprudenziali che, di volta in volta, ne avevano esteso o ridotto la portata. La protezione garantita dal diritto europeo ai dati personali è stata progressivamente ampliata dalla giurisprudenza, traendo spunto dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri.
Se esiste un interesse, anche per pochi addetti ai lavori, a reperire la notizia, questa deve essere mantenuta negli archivi digitali, ma se è trascorso un sufficiente periodo di tempo dovrà non essere più indicizzata, in modo da garantire all’interessato di poter continuare a svolgere la propria professione, senza dover subire in eterno il contraccolpo negativo della notizia che lo riguarda.
La recente giurisprudenza (si veda, ad esempio, la sentenza n.7846/2018 del Tribunale di Milano) ha stretto quindi le maglie sulla duplice responsabilità del motore di ricerca. Da un lato, infatti, quest’ultimo ha un ruolo attivo nella programmazione del software che sceglie gli abbinamenti tra i termini, il rimando alle pagine sorgente ed il grado di visibilità attribuito alla notizia; in secondo luogo, spetta proprio al motore di ricerca attivarsi in riferimento alle pagine in cui la notizia è stata riprodotta. Spesso, infatti, non basta la semplice richiesta di deindicizzazione formulata dall’editore, per ottenere l’effettiva eliminazione dei contenuti dai risultati di ricerca.
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